La navicella Orion della missione Artemis I è ammarata nell’Oceano Pacifico

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La navicella Orion della missione Artemis I è ammarata nell’Oceano Pacifico

Era il 16 novembre 2022 quando la missione Artemis I partì dal Kennedy Space Center sfruttando il potente razzo spaziale NASA SLS (Space Launch System) e, sulla sommità, la capsula Orion e il modulo di servizio europeo. Dopo anni di ritardi finalmente il nuovo programma che riporterà l’essere umano sulla Luna è finalmente agli inizi della fase operativa nonostante a bordo non ci sia alcun equipaggio umano.

C’è da considerare che con hardware di nuova generazione sono necessarie delle prove di volo senza equipaggio così da assicurarsi che niente possa andare male quando con la seconda e terza missione (e quelle successive) avranno a bordo astronauti. Un precedente test senza equipaggio, con un vettore ULA Delta IV Heavy, era stato effettuato nel 2014. Le distanze raggiunte erano comunque ben inferiori così come il tempo trascorso in orbita. Solo una missione di lunga durata, in questo caso quasi 26 giorni, e in orbita lunare poteva garantire una raccolta di dati affidabile per la validazione definitiva.

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Nessuna agenzia spaziale, in tempi moderni, rischierebbe così tanto anche se le problematiche ovviamente possono comunque presentarsi (del resto si parla di andare nello Spazio). Le stesse operazioni le abbiamo osservate, per esempio, con la validazione delle capsule Crew Dragon di SpaceX con il test Demo-1 oppure con l’OFT di Boeing Starliner (entrambe soluzioni per l’orbita bassa terrestre). Il rientro della navicella Orion, avvenuto poco fa, segna un punto cruciale per il programma anche se bisognerà attendere tutta l’analisi dei dati per capire se tutto è andato come previsto.

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Artemis I: rientrata sulla Terra la capsula Orion

Come annunciato in precedenza, la capsula Orion della missione Artemis I è ammarata nell’Oceano Pacifico al largo della California. Si è scelto di adottare un profilo di rientro differente rispetto ad altre missioni lunari del passato. Infatti la navicella si è prima separata dal modulo di servizio europeo (con quest’ultimo che è bruciato nell’atmosfera) mentre la velocità era di circa 40.000 km/h.

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Orion invece ha dovuto orientarsi correttamente con i propri motori per permettere di avere lo scudo termico nella zona anteriore così da proteggere la parte meno resistente (e un ipotetico equipaggio). Si è scelto di effettuare un rientro con un primo contatto degli strati più bassi dell’atmosfera dirigendo la capsula di nuovo verso lo Spazio per poi ridirigerla di nuovo verso l’atmosfera inferiore per l’ammaraggio. Questo permette di avere un rallentamento “più dolce” per l’equipaggio riducendo anche lo stress per l’hardware. Procedura che quindi dovrebbe essere più sicura di quelle impiegate in passato (per esempio con Apollo).

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Intorno alle 18:20 (ora italiana) c’è stato il primo periodo di “black out” delle comunicazioni a causa del plasma che avvolge la capsula (a una quota di circa 80 km). Il segnale è stato poi riacquisito intorno alle 18:26 con l’apogeo della skip maneuver raggiunto circa due minuti dopo. Il secondo “black out” delle comunicazioni è avvenuto circa cinque minuti dopo quando la capsula ha iniziato il rientro definitivo verso la superficie. Nel frattempo la nave della marina statunitense USS Portland aveva iniziato i preparativi per il recupero della capsula dall’Oceano mentre gli aeroplani di supporto in zona procedevano al rilevamento visivo del rientro.

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Alle 18:36 sono stati rilasciati i due paracadute drogue per rallentare la discesa della capsula mentre alle 18:37 sono stati rilasciati i tre paracadute principali che hanno portato la velocità da poco oltre 200 km/h a circa 30 km/h per l’ammaraggio (così che l’equipaggio possa avere il minor disagio possibile). L’ammaraggio è avvenuto alle 18:40 ora italiana dell’11 dicembre 2022 con un rientro che non ha mostrato particolari criticità. Dopo l’impatto con l’acqua si sono gonfiati i palloni superiori per permettere un’ulteriore stabilità e galleggiabilità della capsula stessa. Successivamente una squadra di sommozzatori ha agganciato un cavo alla navicella Orion così da permettere di trainarla all’interno della nave di supporto.

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