Ecco come ti decarbonizzo l’acciaio, una ricerca di Stanford indaga le criticità del settore

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Ecco come ti decarbonizzo l’acciaio, una ricerca di Stanford indaga le criticità del settore

Quando si partecipa al dibattito su come decarbonizzare i settori Hard to Abate, ovvero difficili da abbattere (quali: trasporti pesanti, nautici, l’aviazione e l’industria pesante), una delle soluzioni disposte sul tavolo è l’uso dell’idrogeno (possibilmente verde, ovvero ottenuto tramite energia rinnovabile) quale alternativa al carbone (per i processi industriali) e ai carburanti di origine fossile per i mezzi di trasporto.

Nella realtà sostituire una fonte energetica con un’altra comporta il superamento di sfide e la risoluzione di diverse criticità: contrariamente a quanto forse si potrebbe pensare, l’ostacolo maggiore non è (quantomeno per l’acciaio) legato alla disponibilità di idrogeno, ma alla sua resa durante l’uso quale combustibile.

Nello studio “Correlating chemistry and mass transport in sustainable iron production” redatto da un gruppo di ricerca multi-disciplinare dell’Università di Stanford facente capo a Leora Dresselhaus-Marais, assistente professore di scienza e ingegneria dei materiali, e pubblicato su Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze (PNAS), è emerso come, ad ostacolare l’adozione dell’idrogeno, nel settore dell’acciaio… Sia l’acciaio stesso.

Idrogeno e acciaio

“La produzione di acciaio basata sull’idrogeno diventa via via meno efficiente, a differenza di quanto avviene utilizzando il carbone, ma nessuno ha capito esattamente perché, ha esordito Dresselhaus-Marais, introducendo con questa premessa quanto emerso dalla ricerca “Il nostro scopo qui era stabilire i principi scientifici che governano le prestazioni dei reattori attualmente utilizzati, sia per risolvere il collo di bottiglia in cui ci troviamo adesso, sia per essere in grado di migliorarne la progettazione futura”.

Il team ha quindi deciso di capire cosa avviene all’interno del metallo durante le fasi che, partendo dallo stato grezzo, lo portano a diventare il prodotto finito, scoprendo che ad essere responsabili di questa perdita di efficienza sono le particelle su scala nanometrica presenti nello stesso minerale.

Quando queste ultime vengono sottoposte all’elevato calore raggiunto nei reattori ad idrogeno si autoassemblano, andando a formare strutture allungate, simili a baffi, che intasano i reattori, riducendone via via l’efficienza ed, infine, rompendoli.

Questi minuscoli trucioli si trovano nella polvere di ferro e sono da cento a centomila volte più piccoli delle pepite con cui il minerale viene trasportato: vengono prodotti dallo sfregamento fra loro delle pepite stesse durante le fasi di trasporto e lavorazione, il cosiddetto “whiskering”.

Idrogeno e acciaio

Una volta individuati i responsabili, resta da capire come renderli innocui, impedendo loro di formare questi filamenti che, come detto, portano inevitabilmente alla rottura del reattore ad idrogeno.

Il team ha deciso di esaminare attentamente ogni passaggio della produzione del ferro, partendo dal primo, ovvero l’ossidazione in magnetite (Fe3O4) del minerale di ferro (ematite, Fe2O3).

La seconda fase vede la magnetite trasformata in un materiale intermedio noto come wüstite (Fe1-xO), che diverrà poi il ferro puro (Fe) tramite l’ultimo processo di raffinazione.

Dagli studi condotti dagli accademici, il passaggio cruciale che conduce alla formazione dei baffi, è il terzo, ovvero quello dalla wüstite al ferro puro; grazie all’uso di un microscopio eletttonico e metodi di diffusione dei raggi X, i ricercatori hanno osservato e capito come avviene questo processo. E come, eventualmente, manipolarlo, o saltarlo del tutto.

“Quello che suggeriamo è che sarebbe preferibile saltare la fase wüstite e passare direttamente dalla magnetite al ferro puro, ma è più facile a dirsi che a farsi”, ha spiegato Dresselhaus-Marais. “Sebbene la soluzione da noi proposta non sia facilmente attuabile, queste nuove intuizioni andranno indubbiamente ad aprire l’industria siderurgica a materie prime non convenzionali ma promettenti, forse addirittura aggirando del tutto la pellettizzazione [ovvero la riduzione dell’ematite in pepite], per progettare e ottimizzare nuovi processi di acciaio verde per il futuro”.

La ricerca della Stanford, sebbene non offra una soluzione pronta all’uso, compie un passo in avanti notevole rispetto ai precedenti studi sul “whiskering” che avevano esaminato unicamente i pellet su scala millimetrica, trascurando il ruolo svolto dalle particelle nanometriche, di fatto mancando totalmente l’obbiettivo.

“Abbiamo scoperto che l’acciaio è una delle più grandi ‘industrie’ di nanoparticelle esistenti”, afferma Dresselhaus-Marais. “Speriamo che l’industria possa ora sfruttare le opportunità della nanochimica per controllare meglio il processo di riduzione dell’idrogeno ed evitare – o eliminare – il fenomeno del whiskering”.

A tale proposito, poche settimane fa abbiamo dedicato questo articolo al progetto italiano per lo sviluppo di un’industria metallurgica basato sull’idrogeno che, grazie a questa ricerca, potrebbe testare direttamente sul campo le ipotesi degli accademici.

Fonte: http://feeds.hwupgrade.it/

 

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