TSMC, secondo il fondatore Morris Chang la globalizzazione è ‘quasi morta’

A margine della cerimonia in Arizona con cui TSMC e i suoi partner, nonché il presidente USA Joe Biden, hanno accolto l’installazione dei primi macchinari produttivi nel complesso di Phoenix, il papà di TSMC Morris Chang ha illustrato la sua visione del mondo attuale, molto diversa da quella che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi 30 anni.
Ventisette anni fa, a soli otto anni dalla fondazione, TSMC apriva il suo primo impianto negli Stati Uniti a Camas, nello stato di Washington. Da allora lo scenario economico e politico è fortemente mutato e oggi l’Occidente si sta scontrando con la Cina per la supremazia tecnologica. Anche da questa considerazione nasce la volontà di slegare la produzione di chip dall’area asiatica in favore di filiere corte che fungano sia da salvaguardia per impreviste interruzioni (come il COVID) sia da protezione per le proprietà intellettuali.
“Sono passati ventisette anni e l’industria dei semiconduttori ha assistito a un grande cambiamento nel mondo, un grande cambiamento della situazione geopolitica”, ha detto Chang. “La globalizzazione è quasi morta e il libero scambio è quasi morto. Molte persone desiderano ancora che tornino, ma non credo che torneranno“.
Il nuovo investimento da 40 miliardi di dollari di TSMC negli Stati Uniti rappresenta il compimento del sogno di Chang, da sempre legato agli USA per trascorsi di studio e lavoro. “Il primo impianto ha avuto problemi di costo. Abbiamo avuto problemi con le persone, ci siamo imbattuti in problemi culturali. Il sogno è diventato presto un incubo. Ci sono voluti diversi anni per uscire dal mio incubo e decisi che avrei dovuto posticipare il mio sogno”.
Oggi quel sogno può diventare realtà, TSMC ha spalle più grandi rispetto al passato e può contare sul sostegno del governo degli Stati Uniti, in un rapporto che va ben oltre quello tecnologico ma riguarda anche la sicurezza di Taiwan dalle mire cinesi. Ciononostante, Chang avverte che “c’è ancora del duro lavoro da fare” perché costruire un impianto è una cosa, ma farlo funzionare e renderlo remunerativo a fronte dei maggiori costi (del lavoro e non solo) occidentali rispetto all’area asiatica è un’altra: insomma, il successo anche questa volta potrebbe non essere così scontato.
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